La sponda Indeterminata

La sponda Indeterminata

Mi chiedevo: ma dopo il salto, cosa ci sarà?

Voglio dire. Si parla di salto. Nel buio, nel vuoto, nel nulla, nella luce, nell’ignoto. Un salto di qualità, un salto verso un mondo migliore… tutti che discutono di questo salto, ma poi, alla fine, non si sa bene di cosa si tratti.

Qualche tempo fa ho provato a spiegare un mio dubbio, che porto con me da tanti anni. Quella che invece vorrei scrivere adesso è più una considerazione banale e sotto gli occhi di tutti.

In fondo, mi piace parlare di cose che so… ed interrogarmi su quelle che invece mi risultano sconosciute. Come il salto, per esempio.

Il concetto di salto è da sempre qualcosa che viene legato ad una discontinuità. D’altronde è naturale che sia così… saltare è l’azione che si fa quando si abbandona il terreno su cui si poggiano i piedi per effettuare un movimento in una certa direzione che non presuppone la presenza del suddetto terreno durante il suo compimento. Si può saltare per tanti diversi motivi, e non ci interessa affatto discuterli qui, no?

La domanda, piuttosto, è relativa a QUEL salto. Quello finale. cosa c’è dopo? Ci fa un sacco comodo pensare che la discontinuità abbia fine. Siamo strutturati per ragionare in questa maniera. Se esiste un distacco, in qualche modo ci deve essere anche un successivo punto di contatto. L’idea della discontinuità non temporanea non è così digeribile dai nostri stomaci, e così ipotizziamo.

L’atterraggio sarà morbido? Avremo percezioni paragonabili a quelle che possediamo ora? Sarà un distacco doloroso? Alla fine, da sempre, ci siamo abituati a pensarlo un po’ come un trasferimento. Il che, naturalmente, implica un “qui” e un “là”. E non è semplicemente ammissibile l’idea che il “là” possa non esserci. Che si possa saltare e restare sospesi. Come in un fermo immagine. Il tempo dilatato nell’ultimo istante. Quel buio che si associa al salto finale, non è niente di più distante dal vero buio che potremmo sperimentare se avessimo la possibilità di provare per davvero quella transizione senza una destinazione. E’ un buio molto molto luminoso, fatto di una realtà davvero simile a quella che conosciamo in questo scorcio di luce in cui stiamo scrivendo.

Semplificazione dell’ignoto. E se quel mare sulla cui sponda sostiamo, ragionando sul fatto che debba per forza esistere la corrispondente, non importa quanto lontana, fosse in realtà un punto di partenza per un eventuale passaggio verso il nulla? I nostri sensi ci dicono che non può essere così… eppure, contrariamente ai mari conosciuti del nostro pianeta, viaggiando sui quali sappiamo con certezza che una linea retta ci condurrà, prima o poi, sulla sponda opposta, l’ipotetico mare che dovremmo attraversare se volessimo effettuare quell’ultimo viaggio non presenta nessuna garanzia a tal proposito.

Abbiamo bisogno di sapere che arriveremo da qualche parte. Ma non lo sappiamo. Perché, quindi, non pensare che c’è qualcosa, finalmente, che NON possiamo dire? Qualcosa di ignoto.

Cosa c’è dopo quel salto? Immaginando di poter seguire istante dopo istante tutte le fasi di quella transizione, dovremmo necessariamente fermarci e, ad un certo punto, ammettere di non poter andare oltre. E’ così drammatico tutto ciò? Abbiamo davvero bisogno, per vivere, di spiegare ciò che non possiamo sapere?

In generale, mi verrebbe da dire che NULLA è davvero inconoscibile. Ma non è così. Quello che non possiamo sperimentare, alla fine non possiamo conoscere per davvero.

La sola maniera per comprendere cosa davvero accada durante quell’ultima transizione sarebbe, probabilmente, costruire un mirabolante attrezzo in grado di seguire dall’interno l’intera evoluzione di quel salto verso l’ignoto. Dovremmo anche essere in grado di riportare indietro questo fantomatico quanto incredibile strumento. Dovremmo analizzarlo, e tentare di interpretarne i segnali. Saremmo molto fortunati se fossero in qualche modo intellegibili secondo le nostre umane percezioni. Se così non fosse, dovremmo trovare la chiave di lettura, e provare a dare una spiegazione a quanto stessimo osservando.

Questo, chiaramente, nell’ipotesi che ci sia QUALCOSA da osservare.

E questo, ancor più chiaramente, assumendo che fossimo in grado, in qualche maniera, di determinare se ciò che osserviamo è o meno QUALCOSA (dato che potrebbe essere effettivamente presente un segnale di qualche genere non percepibile da noi).

Sempre per puntualizzare, dovremmo accertarci di non rilevare falsi positivi, confondendo un nulla molto rumoroso con un segnale da interpretare.

Una volta trovato il bandolo della matassa, potremmo, forse, dire di aver esteso la nostra conoscenza. Probabilmente, in ogni caso, non saremmo andati oltre il primo frammento temporale successivo al distacco dal terreno. Questo, chiaramente, assumendo di mantenere la stessa misurazione del tempo. E se le regole fossero diverse? Se l’ultimo istante si estendesse fino a ripiegarsi su se stesso per non finire mai? Potremmo dire che ciò non può accadere?

Restando nel campo delle ipotesi, dovremmo poi confrontare quanto sperimentato da questo incredibile aggeggio con quanto invece percepito dal resto della strumentazione, che ha osservato la dipartita in diretta e ne ha memorizzato l’evoluzione secondo le normali regole a cui siamo avvezzi.

Potremmo dire, quindi, che questo fenomenale esperimento accrescerebbe di sicuro la nostra conoscenza. Tutto questo potrebbe tradursi in realtà se riuscissimo a creare il fantomatico oggetto che possa accompagnare l’ultimo viaggio di qualcuno. Come dire che dovremmo essere in grado di riportare indietro da quel salto la coscienza del viaggiatore.

O la sua memoria. O tutto il viaggiatore…

Dovremmo insomma chiudere quella discontinuità, mantenendo una costante. Dovremmo, in pratica, far coincidere l’altra sponda con quella di partenza, cortocircuitando origine e destinazione. Mantenendo invariato il supporto di registrazione degli eventi. Come dire, però, che facciamo un salto conoscendo il punto di atterraggio. Un salto normale, quindi… come tanti altri che siamo soliti effettuare.

Non stiamo parlando dell’ultimo salto. Non stiamo misurando nulla. Non stiamo registrando il punto di arrivo. Alla fine, Heisenberg vince sempre. Stiamo contaminando la misurazione.

Stiamo dando una spiegazione a ciò che non sappiamo, semplificando l’ignoto ed anticipando il risultato. Quell’ultimo salto, a quanto pare, resterà tale a lungo, ignoto come lo è adesso. E il buio che ne consegue sarà, come è ora, meno buio solo perchè ne abbiamo paura, e vogliamo sapere che una lampadina, per quanto fioca, la possiamo accendere.

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