Sinapsi in cerca di casa

Sinapsi in cerca di casa

Di tanto in tanto mi piace lasciare che le riflessioni seguano i loro percorsi, cercando di guidarle solo per quel piccolo tratto di strada utile a dar loro una direzione. In questa maniera si tende a scoprire quali siano i pensieri più ossessivi che dominano la nostra vita nell’intorno del momento in cui si giunge a tale realizzazione.
Uno dei temi che da sempre ha catturato l’attenzione dei miei neuroni è l’esperimento di eliminazione virtuale delle sovrastrutture mentali create dal nostro entourage, da noi stessi o apparentemente (e solo così potrebbe essere) connaturate alla nostra essenza. Ciò che siamo deriva da molti fattori che si sommano ed originano il risultato. Ognuno di questi fattori appartiene alle due categorie in cui si possono effettivamente dividere i condizionamenti che influiscono su di noi: esterni o interni.
Se è facile individuare e suddividere alcuni stimoli che sono già all’evidenza sovrastrutture eliminabili, non è altrettanto semplice trovare tutti quelli che, invece, sembrano provenire da noi. Il gioco che i miei pensieri tendono a fare è proprio quello di iniziare a rimuovere tali condizionamenti, e vedere cosa accade. Si inizia chiedendosi se ciò che si sta facendo abbia o meno un senso. Ci si interroga circa il valore che la propria vita acquista mentre si svolgono tutte quelle attività che, apparentemente, sembra doveroso portare a termine. Poi l’interrogazione si estende, e si inizia a domandarsi il perché si ritengano indispensabili tali compiti. Il lavoro. È davvero scontato che se ne debba avere uno? E perché? Per i soldi? Certamente, ma non solo. Perché è uno dei condizionamenti che ci troviamo ad avere quello di dover lavorare. Certo, sarebbe ridicolo pensare a qualcuno che, senza avere i mezzi, scelga di vivere senza lavorare. Questo poiché in breve tempo morirebbe di stenti. Ma se riflettiamo si questo punto, diventa facile capire che il lavoro, all’inizio, è stato inventato per soddisfare esigenze primarie. Se ci fosse un modo alternativo, non servirebbe lavorare. Il lavoro, però, ha anche una precisa utilità sociale: quella di contribuire alla società. Io produco software per società di telecomunicazioni. Che fanno telefonare la gente. Che ha bisogno di telefonarsi perché è lontana. Che è lontana perché magari lavora lontano. E lavora per fare magari qualcosa che a sua volta richiederà che qualcun altro lavori, e via così. L’evoluzione della società richiede lavoro. Ma a che serve l’evoluzione? Soddisfa forse qualche bisogno primario? Si mangiava e beveva anche nell’età della pietra, e a quel tempo il lavoro era costituito dall’attività necessaria a soddisfare i bisogni primari. Se avevi da mangiare, non serviva cacciare. Sennò lo facevi. Evidentemente il mio cervello prende il via e viaggia sull’onda dell’entusiasmo. Sono e resto un assoluto sostenitore dell’evoluzione. Il punto è che è bello, di tanto in tanto, rimettere a posto le priorità, e dare il giusto valore a ciò che si fa. Tutto, alla fine, origina da un processo esplosivo, che trae la sua ispirazione da necessità base, soddisfatte attraverso altre necessità, le quali a loro volta ne richiamano di nuove e così via. Ogni cosa che facciamo ha la sua origine nel tentativo di soddisfare uno o più bisogni primari. La modalità attuativa di tale soddisfacimento è mutata nel tempo, e con essa sono mutati i condizionamenti che si ricevono a tal proposito. Il più delle volte riteniamo necessarie alcune cose che, a ben pensare, derivano solo da convenzioni e regole sociali. Occorre studiare per apprendere un mestiere, lavorare per mettere in pratica la propria professionalità ed evolversi per aumentare i guadagni e potersi permettere una famiglia, una vita più agiata ed il soddisfacimento di necessità primarie e secondarie. Il più delle volte si dedica il 70-80% del proprio tempo al lavoro, e si ha meno possibilità di soddisfare tali bisogni secondari. Restano quelli primari, che però, a ben vedere, nulla hanno a che fare con l’evoluzione. Che si mangi un panino o un’aragosta, il discorso non cambia. L’aragosta, però, richiede una nostra intera giornata di lavoro.
Rimettere le cose al proprio posto vuole anche, e soprattutto, dire che occorre trovare il giusto bilanciamento tra quello che si fa, il tempo che gli si dedica, l’importanza che tale attività ha in termini di soddisfacimento fine a sé stesso nel farla, possibilità di godere di appagamento di bisogni secondari ed, in ultimo ma forse più importante, valorizzazione di tutte le necessita primarie sottese a tale attività.
Eliminare i condizionamenti vuol dire che la società in cui viviamo ha messo regole, scritte e non, per cui si deve seguire una certa rotta per arrivare in un certo punto. Non essendo, però, delle macchine programmate, occorre sempre tentare di risalire allo scopo di ogni cosa per poi valutare quale sia il percorso migliore per raggiungerlo.
A volte non è possibile, non è mai semplice, ma ritengo sia la maniera più sana per dare un senso alla nostra vita, ed evitare che il percorso che si fa sia stato scelto e continui ad essere seguito perché “si fa così, inutile discutere”.
Ogni cosa ha un senso, e la vita che conduciamo oggi deriva da scelte, non sempre nostre, fatte ieri. Il momento più bello è quando si scopre l’origine di una certa abitudine, sia essa nostra oppure dell’intero ambiente in cui viviamo.
Capirlo permette di liberarsi, per un attimo, di una sovrastruttura pesante ed ingombrante.
A volte mi piace vagare… A volte è necessario liberare il pensiero, e lasciare che la vera essenza di ciò che siamo guidi le scelte che facciamo.

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