Onestà autoreferenziale…

Onestà autoreferenziale…

Fare domande è qualcosa che da sempre ritengo affascinante. Specie quando le poni a qualcuno che, lo sai, darà una certa risposta, mentre tu vuoi portarlo in una direzione differente. Coglierlo in fallo, magari, o semplicemente dimostrare attraverso la sua risposta un tuo personale teorema, con tutti i relativi corollari.

Mi capita molto spesso, specie ultimamente, di iniziare una conversazione e ripetere di continuo: “siamo d’accordo su quetso punto? Bene, allora, se siamo d’accordo, si desume che…”, eccetera.

Come se stessi facendo una dimostrazione matematica, tendo ad affrontare le questioni punto per punto, passo per passo. Forse è una maniera per concentrarmi meglio, evitare di perdere dei pezzi e garantirmi che ogni considerazione derivi da un concettto precedentemente concordato.

O, forse, è solo roba da fighetti… esistono persone che vogliono soltanto dimostrare di saperne di più, o di saper ragionare meglio di te, o di non farsi mai cogliere in fallo. Sarò in quella schiera, a volte mi chiedo? Non che mi preoccupi la cosa, ma vorrei saperlo, visto che essere annoverato tra coloro che non sanno ma fanno finta di sapere vorrebbe dire, per me, dovermi adattare all’idea di non saper originare pensieri trasversali, di non saper trarre conclusioni logiche da altrui considerazioni.

In ogni caso, non era di questo che volevo discutere. La premessa è venuta così, come una specie di appendice al vero punto della questione. Che, tra l’altro, temo di aver dimenticato, almeno in parte. Quindi continuerò col precedente filo logico, in attesa che il pensiero rientri in carreggiata.

Parlavamo del ragionamento. Di come, spesso e volentieri, mi capiti di interrogarmi sull’origine delle mie idee. Sono esse qualcosa di originale, una specie di proiezione del mio io trasportato su un concetto, una situazione, un problema? A volte capita di esporre qualcosa provando a riflettere alle proprie reazioni nell’ipotetico caso in cui ci si dovesse trovare ad affrontare il problema di cui si discute. Altre volte, tale problema lo si è bello che affrontato, magari risolto oppure semplicemente aggirato. E, quindi, si finisce per parlare della propra esperienza di vita. A volte, semplicemente, si ragiona sulla semplice base delle proprie idee, che magari non hanno nessuna attinenza con i comportamenti (passati o possibili in un ipotetico futuro) che avremmo in quella situazione.

Questo discorso potrebbe finire per essere uno dei tanti “meta-qualcosa”, che si torcono e ritorcono su se stessi per la troppa autoreferenzialità. Ecco la parola chiave. Ora ricordo di cosa volevo parlare. Autoreferenzialità. La scorsa settimana, in vacanza, mi è capitato di partecipare ad un discorso durante il quale si è tirato in ballo il concetto che l’essere umano è assolutamente autoreferenziale. Sai quei discorsi da vacanza? Fantastici, pieni di emozionanti verità, disquisizioni che partono da un concetto molto semplice e finiscono per abbracciare l’Universo intero e ancora oltre?

Quei discorsi lì. Che ti permettono di concludere alle 4.30 del mattino, provare l’ebbrezza di dormire 3 ore, e sperimentare l’efficacia dell’adrenalina quando devi tirare avanti per una giornata sullo snowboard spaccandoti ogni singolo muscolo (anche quelli che non sapevi di avere, dannazione a loro!!!).

Comunque, in uno di quei fantastici ed interminabili dialoghi, è sortito fuori questo concetto: l’autoreferenzialità. Poco fa stavo riflettendo su qualcosa che mi assilla da sempre. Si tratta dell’idea di soggettività che l’uomo ha. In fondo non è molto differente dall’autoreferenzialità di cui sopra. Provo a spiegare qualcosa che per me è assolutamente affascinante. Vediamo se mi riesce.

Supponiamo di esistere (cosa semplice, direi… perdonate la banalità…). Esistendo, noi ragioniamo, e viviamo in prima persona ogni istante della nostra vita. Vediamo il mondo con i nostri occhi, sentiamo gli odori con il nostro naso, e tocchiamo gli oggetti con le nostre mani. Ascoltiamo e gustiamo tutto secondo i nostri personali sensi. Se ci mancasse uno di essi, non avremmo nessuna maniera per comprenderlo utilizzando quello di un’altra persona. Allo stesso modo, non potremmo mai pensare di provare le stesse sensazioni di un’altra persona di fronte a qualcosa. Chiamiamo tutti rosso un maglione che ci sembra rosso, ma lo facciamo senza sapere quale sia la sensazione di rosso provata dagli altri. Di sicuro ci sarà una base comune, ma senza ombra di dubbio ogni rosso sarà diverso. Allo stesso modo, ogni nostra esperienza avrà una sua unicità proprio in quanto nostra.

Ragionando su questa assunzione (ah, come mi piace fare i discorsi step by step!!!), possiamo anche asserire che tutto quello che facciamo viene visto tramite i nostri sensi, e non ha nessun valore pratico per il resto delle persone, che vivranno altre esperienze, o anche le nostre stesse ma con occhi diversi.

Di conseguenza, potremmo anche stressare il concetto e dire che il mondo che vediamo e sentiamo e percepiamo è così solo perché noi esistiamo. Se non ci fossimo, probabilmente non potremmo dire di vedere queste cose. Sto, in pratica, dicendo che se non esistessimo, non saremmo vivi. Banale quanto volete, ma non può che essere così, direi (chi mi contesta? Avanti, su…).

Detto questo, provate a ragionarci un po’ su. Stiamo dicendo, in pratica, che il mondo attorno a noi, per noi, esiste solo perché esistiamo noi. Per un’altra persona varrà la stessa cosa (il mondo, per lui, esiste solo in virtù del fatto che lui è vivo).

E così via. Fin qui tutto ok. Solo che, se vogliamo, possiamo anche dire che noi NON sappiamo che per gli altri esiste un mondo. Lo presupponiamo, è vero, ma non lo percepiamo affatto. Se qualcuno ci racconta di come è la sua visione del mondo, noi lo ascoltiamo ma non sentiamo davvero quello che lui ci racconta. Anche la sua narrazione esiste per noi perché noi viviamo. Se lui prova dolore, possiamo essere empatici quanto vogliamo, ma non proveremo mai quel dolore, così come lo prova lui. Lo stesso dicasi per le altre sensazioni.

Quindi, di fatto, il mondo c’è per noi solo e soltanto perché ci siamo noi. Se non ci fossimo più, il mondo anche smetterebbe di esistere, per noi. Gli altri, probabilmente, continuerebbero a vederlo e viverlo, ma per noi non ci sarebbe più. Sembra facile… ma ora viene il bello. Ricordate la storia della soggettività, o autoreferenzialità, o come volete chiamarla? Beh, eccoci qui. Se vi torna quello che è stato detto finora, allora possiamo provare a proseguire l’esperimento.

Supponiamo di non esistere più (questo sembra più complicato rispetto alla precedente assunzione, vero? Evitate di provare praticamente questo concetto… per favore…).

Bene. Non esistiamo più, adesso. Cosa succede? Cosa cambia? per il mondo, forse, niente. Per noi, invece, tutto è cambiato. Il mondo non c’è più. Non sentiamo più nulla, non vediamo più nulla (e qui già immagino la rivolta dei cattolici e di chi pensa ci sia qualcosa dopo… va bene… ci sto… ci può essere qualcosa dopo, ma facciamo finta che per ora parliamo di quello che sappiamo, ok? E noi sappiamo che vediamo il mondo solo perché siamo vivi. Ergo, se non siamo vivi, NON vediamo il mondo).

Bene, secondo voi, cosa ne è stato del mondo? Riuscite a pensare a qualcosa che continui oltre voi? Per me risulta possibile da pensare, ma difficile da comprendere. Se abbiamo detto che per noi il mondo esiste solo perché lo percepiamo, se non possiamo più percepirlo, dove finisce quella soggettività che era nostra? Dove va a finire quel pezzo di mondo che vedevamo noi? Se ipoteticamente ci fosse uno spettatore sintonizzato su una singola visione (la nostra, causalmente), cosa ne sarebbe del film che egli sta vedendo? Finirebbe?

E’ evidente la risposta a tale domanda, ma provate davvero a riflettere in maniera critica, ragionando su questa situazione un po’ al limite della fantascienza: la nostra coscienza sta percorrendo un cammino. Vede oggetti, altre persone, sente emozioni, eccetera. Il tutto si svolge senza soluzione di continuità. Nessuna interruzione, un po’ come in The Truman Show. La vita in diretta vista dai nostri occhi. Anche quando dormiamo (a quel punto è tutto buio, naturalmente).

Se consideriamo, come poi alla fine facciamo, questo “film” come l’unica realtà possibile (in quanto autoreferenziali, tutto ruota attorno a noi, e il resto esiste come comparsa), cosa ne è di tutto questo alla nostra fine? Davvero riusciamo ad immaginare che tutto continui senza che noi possiamo vederlo? Non abbiamo detto che per noi tutto esiste SOLO perché noi esistiamo? Dobbiamo essere coerenti. Non sto dicendo che non credo che il resto continui… ma riusciamo davvero a pensare e credere e sentire questa cosa? Davvero, se chiudiamo gli occhi, le orecchie, il naso, la bocca e teniamo le mani ferme, riusciamo ad immaginare che esista qualcosa lì fuori?

Mi spiegate come fate, se ci riuscite? Grazie!!!

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