Lo specchio delle illusioni

Lo specchio delle illusioni

Un tempo amavo darmi delle definizioni. Ero quello che “questa cosa non la tollera”, quello che “questa cosa non si fa”. Un tempo avevo un’identità che, per me, era chiara, persistente, immutabile.

Un tempo, ad esempio, mi definivo pessimista. Forse, in realtà, lo ero davvero. O forse no. Questo non conta, poiché mi ero calato appieno nella parte. Mi ero fatto l’idea che un atteggiamento negativo nei confronti degli avvenimenti, presenti e futuri, potesse mostrare una profondità di pensiero ed uno spessore che, per qualche ragione, credevo di possedere.

Reputavo decisamente superficiali coloro i quali manifestassero un costante senso di fiducia nei confronti del futuro, della natura umana, di loro stessi. Sorridenti e superficiali.

Ottimisti. Bleah, brutta categoria.

L’evoluzione delle persone, però, spesso è così sorprendente da mostrarci come, a distanza di pochi anni, uno sguardo a sé stessi possa mettere a nudo degli aspetti che, fino a quel momento, avevamo trascurato.

Volutamente, o inconsapevolmente. Come prima, il risultato non cambia.

Guardarci allo specchio è un gesto decisamente quotidiano. Lo facciamo senza pensarci, e utilizziamo la nostra immagine riflessa per acconciare i capelli, per verificare di non avere della verdura tra i denti, o semplicemente perché ci troviamo casualmente a buttare l’occhio a quella lastra di vetro che ci mostra chi siamo. O chi presumiamo di essere. Guardiamo, ma quasi mai ci soffermiamo ad osservare. Quasi mai cerchiamo di percepire la nostra immagine e di collegarla alla nostra reale identità. Siamo noi quelli che stiamo guardando. Dietro quel riflesso c’è un essere umano che vive, respira, ed evolve.

Così ho iniziato a farlo. Ad osservarmi. Non solo allo specchio, ma anche durante la giornata. Osservare le mie reazioni, percepirle, prestare attenzione a me stesso, a cosa mi accade attorno e a come la mia presenza fisica si colloca nello scenario in cui mi trovo ad agire.

Ogni nostra azione è originata dal nostro essere. Il fatto di esistere ci porta ad agire. Quello che, però, è il risultato della suddetta azione, non è sempre corrispondente al risultato atteso.

A questo punto sarebbe da chiedersi dove sia l’errore. Nell’intenzione o nella realizzazione?

Sarebbe bello poter rispondere a questo punto che l’intenzione, poiché nasce da noi stessi, il più delle volte corrisponde a ciò che, davvero, avevamo intenzione di fare, mentre la sua attuazione, spesse volte, deve fare i conti con la realtà attorno a noi.

La domanda che, invece, dovremmo farci, è se davvero quell’azione che noi crediamo provenga da una nostra necessità sia effettivamente originata dal nostro modo di essere o se, invece, è stata in qualche modo forzata da qualcosa che, a ben vedere, non siamo davvero noi. Se, in pratica, quel corpo che si muove e agisce è davvero la manifestazione di noi stessi.

A seguire, si potrà pensare alla realizzazione delle nostre intenzioni.

Maschere, involucri, finzioni, idealizzazioni. Gli echi della nostra identità sono ormai nascosti sotto strati di sovrastrutture e forzature che, di fatto, tendono ad attenuare ogni impulso che sia originato dal nostro vero “noi”. Abbiamo bisogno di conferme e certezze, e quindi costruiamo le risposte sulla base dell’indice di gradimento associato ai destinatari delle stesse.

Credevo di essere pessimista. Di conseguenza ho trascorso molti anni a farmi coccolare da quelli che pensavo fossero i normali atteggiamenti che un vero pessimista avrebbe dovuto possedere.

Mi sono, poi, accorto che, in verità, tendevo ad utilizzare degli schemi distorti per indagare sul probabile futuro. Tendevo ad assumere atteggiamenti vittimistici, più che limitarmi a “vedere nero”. Ho realizzato che quella sensazione di malessere che mi portavo sempre appresso era manifestazione del mio approccio inadeguato alle situazioni. Mi lamentavo, assumevo un’aria triste e rassegnata, e non investivo mai le mie energie nel tentativo di comprendere ciò che mi accadeva e trasformarlo, ove possibile, in qualcosa di meno rovinoso, per me e per chi mi stava attorno.

Così ho deciso di cambiare, ed ho iniziato a cercare di imparare ad essere ottimista. La solita fandonia del “bicchiere mezzo pieno”. Solo che non c’è nessun bicchiere… O meglio, il bicchiere è soltanto un bicchiere. E non basta convincersi di vederlo mezzo pieno per guardare il mondo con maggiore speranza.

Si, perché non è così immediato l’esercizio di provare a leggere buone notizie laddove non sembrerebbe possibile applicare il conosciuto concetto di “buono”.

Ho cercato, quindi, di arrivare a comprendere quali aspetti di me mi tenessero lontano da quella catogoria a cui credevo di appartenere. L’osservazione aiuta, e la determinazione consente di proseguire in questa strada, per arrivare a determinare se, davvero, stiamo agendo come farebbe la persona che riteniamo di essere.

Semplice, utile ed illuminante. E tremendamente sbagliato.

Ogni definizione porta con sé, inevitabilmente, un vizio di forma, che la rende opinabile e discutibile. Certo, si potrebbe convenire sul significato dei termini che definiscono la definizione stessa, ma si cadrebbe nello stesso errore.

Il mondo è osservato attraverso gli occhi di chi ne parla, e per questa ragione esistono miliardi di mondi diversi. Con essi, esistono miliardi di possibili definizioni di ogni singola cosa, evento, emozione.

Il tentativo, quindi, di auto-definire noi stessi attraverso pre-esistenti definizioni è destinato inevitabilmente a portare al fallimento.

Ciò che serve è osservarci, e comprenderci. Smettendo di rinchiudere noi stessi in una inutile gabbia, come è la necessità di dare un nome ad ogni cosa.

Il mio tentativo di adeguarmi ai principali dettami della categoria alla quale, per qualche ragione, avevo deliberatamente scelto di aderire, senza peraltro saperne granché, né aver ricevuto invito alcuno, mi aveva, quindi, portato ad agire nel mondo nella maniera in cui io stesso credevo ci si aspettasse da qualcuno che effettivamente appartenesse a quella categoria.

Convincendomi, poi, di essere effettivamente un membro di tale eterea congrega, avendo davanti ai miei stessi occhi l’evidenza costante del mio agire.

Avevo, quindi, confuso le cause con le conseguenze, invertendone l’ordine ed ottenendo di gratificarmi per la conformità del risultato alle specifiche. Specifiche le quali, però, avevo io stesso determinato avendo in mente il risultato da ottenere.

La nostra esistenza è piena di esempi di questo modo di procedere, che ci fa sempre più assomigliare a chi crediamo di essere. Ma che, di fatto, non fa altro che impedirci di esprimere per davvero la nostra natura ed essere, quindi, quelli che siamo per davvero, cosa che permette di gratificare le proprie qualità, e di lavorare sulle caratteristiche che, invece, riteniamo non rispondere alle nostre potenzialità.

Così, un po’ per caso e un po’ perché ho iniziato a cercare di leggere le mie reazioni senza assoggettarle ad obbiettivi che non fossero il semplice “constatare” il mio modo di rapportarmi alle persone e alle situazioni, ho compreso che definirmi pessimista era uno degli esempi migliori di vizio di forma che potessi sperimentare.

E ho smesso di esserlo. O, meglio, ho smesso di tentare di comportarmi in modo tale da potermi, poi, identificare in quella categoria.

Ho smesso di fare questo stesso errore anche relativamente a molte altre definizioni che avevo deciso mi dovessero calzare.

Ho cercato di ascoltare le mie reazioni alle diverse situazioni. Di osservare me stesso alle prese con le persone. Di definire i miei limiti e le mie capacità, imparando a presentarmi al mondo con la maschera in mano. O, se proprio risultasse impossibile toglierla per mostrare la persona reale, di essere consapevole di indossare un travestimento. Di non scambiare la propria visione del mondo per il mondo stesso, e quindi di vivere e crescere sempre all’insegna di un sano relativismo.

Ho cercato, e cerco tuttora, di trovare quel fanciullo nascosto sotto strati di illusioni, per potergli chiedere come si possa provare ancora meraviglia e stupore, e per apprendere ad osservare il mio riflesso allo specchio senza mai darlo per scontato. Come se io fossi ogni istante una persona nuova, da scoprire e da perfezionare.

Il cammino è ancora lungo, ma i giusti passi sono stati mossi.

 

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