Bilancio

Bilancio

Ormai è ufficiale. Inutile negarlo (e perché mai dovrei farlo???): sono a tutti gli effetti entrato nell’era dei bilanci.

E, se da un lato fare quello economico mi costa davvero poca fatica (basta guardare il colore rosso del mio conto corrente, e si è subito invogliati a pensare ad altro, ed attendere che tutto si risolva da solo…), quello emotivo risulta un tantino più complesso da gestire.

Rileggendo i miei ultimi post, e scoprendomi svariate volte, anche nella stessa giornata, fermo a riflettere, non posso che gettare la maschera ed affrontare questo periodo per quello che è: il momento di tirare alcune somme.

O sottrazioni, in alcuni casi…

La cosa non mi dispiace, in effetti: sono sempre stato abbastanza introspettivo e dedito alla riflessione. Difficilmente, però, ho affrontato momenti in cui ho fatto un bilancio della mia vita.

Per gran parte del tempo dedicato alla meditazione, mi sono dedicato alla costruzione di qualcosa. Una parte di me stesso, in genere, che fino a quel momento non era stata analizzata e valutata.

Ho sistemato molte inconsistenze. Ho mutato radicalmente l’approccio che ero solito avere nei confronti di molte tematiche. Ho cercato di capire, e di conformare la causa con l’effetto. “Io per come mi immaginavo” in contrapposizione a “Io per come mi tornava l’altrui percezione di me stesso”.

Per dirla in parole povere, ho cercato di sincronizzare le aspettative su me stesso con il soddisfacimento delle stesse, seguendo un approccio induttivo basato sull’osservazione dell’effetto che avevo sul mondo.

Uhm, mi sa che usare parole povere non ha l’effetto sperato. Facciamo finta che sia chiaro.

Costruzione di qualcosa, dicevo. E’ sempre stato l’obbiettivo primario, poiché nella mia vita mancava una solidità strutturale che andava acquisita. Mi dovevo tutelare da me stesso, conformando le mie azioni ai miei pensieri.

Solo così potevo evitare di combinare disastri, e potevo sperare di andar fiero di me.

Ho lavorato tanti anni attorno a questo progetto. Il più imponente ed importante della mia vita. Non c’è mai limite a ciò che si può imparare, quindi tale processo resta attivo, e si concluderà solo quando non ci sarò più io dal lato del mirino di questa enorme fotocamera chiamata vita.

E’ stato un processo naturale, forse, quello di iniziare ad affiancare a questa attività di costruzione frenetica una crescente attenzione al risultato ottenuto. Non credo sia difficile da capire come, investendo tante energie per ottenere un risultato, si riservi una parte di esse al monitoraggio dello stato dei lavori. In fondo il monitoring dei progetti è qualcosa che la mia attività lavorativa conosce bene. La vita privata, in fondo, segue dinamiche abbastanza simili.

Controllare l’avanzamento è diventato sempre più importante, specialmente quando gli avanzamenti hanno iniziato a rallentare, e il processo costruttivo si è trasformato sempre più in un’opera di rifinitura, poiché alcuni obbiettivi erano effettivamente stati raggiunti.

Cosa accade al completamento di un’opera? E’ quello che mi sto chiedendo da un po’ di tempo. Fermo restando il fatto che molti altri progetti costruttivi su me stesso sono partiti, ed alcuni sono ancora in stato di avanzamento, cosa accade quando uno degli obbiettivi iniziali viene raggiunto?

Tempo di bilancio. Si fanno i conti. E si assapora il risultato del lavoro fatto. I benefici che ha portato alla nostra vita. Le rinunce che ha richiesto. Si valutano i costi, e si progetta una nuova fase.

La tematica dei costi e delle rinunce, in particolare, mi sta regalando momenti di profonda riflessione.

Ho guadagnato una parte di me stesso, conquistandola con fatica. Ma ho perso qualcosa. E’ innegabile, ed evidente.

Le domande che mi pongo da un po’ di tempo, lo capisco forse solo adesso, sono proprio relative alle conseguenze di questa perdita sul mio presente, e soprattutto sul futuro che posso attendermi.

Se chiudo gli occhi e provo ad osservare il filo logico che ha unito ogni istante della mia vita, vedo la mia vita simile ad una nuvola confusa.

Si sposta, si deforma, e segue il vento.

Non ha una sua specificità, e viene trasportata dagli elementi esterni. Spesso non prova nemmeno a ribellarsi, perché è consapevole della sua fondamentale inconsistenza.

Ma col passare del tempo, quella stessa nuvola impara ad inspessire i suoi contorni, definire la sua posizione tra le altre, ed iniziare a proteggere lo spazio attorno a sé.

Protezione. Una parola che nasconde dietro di sé un mondo di significati. Un oceano di conseguenze.

Il cammino che ho finora percorso mi ha portato a fare innumerevoli scelte. Molte di esse, a dire il vero, sono state più una naturale conseguenza di alcuni eventi, o di considerazioni fatte a seguito di situazioni particolari. Nel tempo ho imparato una cosa per me molto importante: gli altri non sono come me. Sembrerà scemo, ma questa considerazione ha cambiato radicalmente il mio approccio con le persone che mi stanno attorno.

Non ricordo quando ho finalmente metabolizzato questa constatazione: è di sicuro stato un lento processo. Il risultato, però, ce l’ho sotto gli occhi ogni giorno. Gli altri possono fare quello che vogliono. Ne hanno il diritto, e ne hanno la capacità. Detta così sembra un elogio all’anarchia, invece è una semplice conclusione dettata dall’osservazione delle dinamiche attorno a me: non abbiamo il controllo diretto sui pensieri e sulle azioni altrui. Ne consegue inevitabilmente che costoro possono agire in modi a noi sconosciuti. Possono compiere azioni per noi deprecabili. Possono ferirci. Possono tradirci.

Non è pensabile pretendere da qualcuno un determinato comportamento, semplicemente perché il nostro modo di vedere il mondo è assolutamente focalizzato sul nostro punto di vista. Non esiste la possibilità di impersonare qualcuno che non siamo noi. Non esiste, quindi, la possibilità di comprendere fino in fondo la vita altrui.

Ogni persona che vive in questo pianeta è una singolarità che osserva il mondo e agisce al suo interno secondo regole e principi non replicabili da nessun altro. Senza voler affrontare il tema delle affinità elettive (grazie alle quali si può pensare di creare e mantenere rapporti umani, e sentimentali in particolar modo), sapere che posso aspettarmi praticamente qualsiasi cosa da chiunque, mi mette in una posizione allo stesso tempo di sicurezza e di pericolo.

Protezione. E’ questo che spesso cerchiamo, e che solo a volte troviamo. Proteggere i propri confini è uno degli impulsi più fortemente connaturato alla natura animale a cui apparteniamo. La territorialità si estende anche al proprio mondo interiore. Proteggere le emozioni permette di preservare sé stessi, ma porta con sé un rischio che non bisogna sottovalutare. Anteporre la propria integrità al bisogno atavico di nutrire la nostra sfera emotiva, infatti, porta inevitabilmente al raggiungimento di uno stato di torpore emozionale, di cinismo protettivo. Di aridità, forse.

Il bilancio di questa mia vita porta a collocarmi in una posizione davvero pericolosamente vicina a questo stato di desertica piattezza che mi permette di sopravvivere agli eventi, di direzionare me stesso, attraverso una lucida razionalità, verso quello stato di solidità caratteriale tanto ricercato e desiderato negli anni passati. Non rinnego, ovviamente, il desiderio di raggiungere questo obbiettivo. Sentirmi forte, strutturato, consolidato, è qualcosa che resterà l’obbiettivo principale della mia ricerca. Molta strada è stata percorsa da quando, parecchi anni addietro, non avevo neppure la percezione di chi fossi e di cosa desiderassi da me. Troppa strada c’è ancora da fare, e sarà quella sulla quale cercherò di camminare nel futuro.

Quella che sta diventando sempre più chiara ai miei occhi, piuttosto, è la consapevolezza di ciò che ho perso, o magari semplicemente lasciato indietro, durante tale cammino.

Ci sono situazioni che ti portano a determinate scelte. A volte sono consapevoli, altre volte sono guidate. Altre ancora, sono decisioni prese senza riflettere, per scappare da qualcosa. Per proteggersi da qualcuno. Per preservare la propria integrità.

Come quando si è costretti ad assumere morfina per sfuggire ad un potente e persistente dolore si rischia di incorrere in una dipendenza, dalla quale poi occorre uscire, così la protezione della mia fragilità ha portato alla parziale perdita della capacità di sentire.

Provare emozioni è così difficile, ed allo stesso tempo così naturale se non si fa nulla per costruire un filtro. Il mondo sembra non essere stato messo al corrente che avere rapporti con altri esseri umani è la cosa più difficile che ci sia. Guardarsi attorno e vedere gli altri interagire e sorridere lo fa sembrare così banale, quando invece di banale non ha assolutamente nulla. Per me, in particolare, è sempre stato, e continua ad esserlo, un difficile gioco di equilibrio tra spontaneità e finzione. Tra adattamento ed integrità. Un mix esplosivo che rende ogni relazione una specie di misteriosa magia, che può riuscire oppure fallire sulla base delle dosi applicate ad ogni ingrediente.

Le persone si incontrano, e si separano. Si trovano, e camminano assieme. Si ama, si odia, e tutto si distrugge e si rigenera, in un vortice infinito. In questo processo discontinuo ma eterno si collocano le nostre vite. Ci caliamo in questo mondo ed veniamo a contatto con questo vortice di umana socialità. Qualcosa teniamo, qualcosa perdiamo. Tocchiamo tutto, con maggiore o minore veemenza. Intrecciamo le nostre storie, e cerchiamo poi di dipanare quella matassa che costituisce la nostra ragnatela di relazioni. E doniamo una parte di noi. Sempre, o quasi, i contatti con gli altri bruciano quella parte più esposta del nostro perimetro, lo fondono e creano un’intersezione che può dimostrarsi durevole, oppure può svanire subito. Alcune unioni penetrano più a fondo nel nostro spazio personale, altre restano contatti di superficie. A volte mettiamo in gioco la parte più profonda della nostra interiorità. A volte, poi, siamo costretti a fuggire, dopo aver reciso quel contatto. A volte si perde una parte di sé.

Quando si dona tutto quello che si ha, e lo si mette in gioco in un rapporto, come avviene con il gioco d’azzardo, si dovrebbe anche accettare di poter perdere completamente l’investimento fatto.

Purtroppo la natura conservativa che ci contraddistingue è capace di scommettere tutto, ma non è in grado di metabolizzare una grossa perdita. Si presume sempre di poter riavere indietro quella parte di sé che si è investita, mentre la realtà dei fatti è che, in generale, quell’intersezione che ci univa non apparterrà più a noi.

Più si mette davvero in gioco qualcosa, più la perdita sarà evidente. La protezione per questo tipo di gioco non esiste. Se possiamo fare a meno di scommettere sulle carte, sui cavalli, e su qualsiasi cosa comporti una perdita di patrimonio, siamo purtroppo geneticamente orientati ad offrire una parte di noi agli altri. Possiamo solo imparare ad accettare la perdita, e a ricostruire quanto smarrito.

Naturalmente possiamo forzarci a limitare la componente di noi che mettiamo sul tavolo da gioco. Ed è una delle scappatoie più facilmente adottabili. Serve soltanto essere arrivati così in basso da aver perso la stima di sé stessi. Ricostruire una parte così grossa richiede un impegno enorme e ha come conseguenza principale, almeno per me, la costruzione di un muro di contenimento, che non lasci uscire più quello che si reputa così importante da dover essere preservato.

Si pone la questione se la soluzione non sia peggiore del problema stesso. Onestamente non so ancora rispondere a questa domanda.

Negli anni ho imparato a dosare le parti di me da spendere nelle relazioni. Sono sempre stato abbastanza autosufficiente, non ho mai avuto un’irrefrenabile bisogno degli altri. Quando mi sentivo solo, e mi gettavo nella spasmodica ricerca di compagnia, era soprattutto perché non avevo ancora raggiunto un equilibrio tale da ritenere la mia stessa presenza sufficiente a coprire gli istinti sociali minimi.

Questo passo è ormai storia. Mi piace dedicare a me stesso il mio tempo libero, e quando cerco compagnia non è per sopperire ad una mia mancanza. Non è per noia e solitudine che mi piace condividere le cose. E questo è buono, è un risultato a cui mi tengo agganciato.

La differenza tra un ottimo risultato ed uno che, invece, ottimo non è, è quanto si è speso per arrivare ad esso.

Più precisamente, direi che si può misurare attraverso quello che si è bruciato. Investire tempo ed energie per qualcosa che possa migliorare la nostra vita è comunque sempre da apprezzare, e da ricercare.

Utilizzare delle parti di sé stesso, non facilmente ricostruibili, per ottenere il risultato, come si farebbe con dei mattoni per erigere un muro, porta invece ad un bilancio non sempre positivo.

Si rischia di aver sottratto a sé stessi delle porzioni importanti della propria identità. Pezzi che, a volte, potrebbero anche ritenersi perduti senza rimedio. Fare un bilancio serve anche a capire cosa si è guadagnato, e cosa, invece, è andato perduto.

Spontaneità contrapposta a Protezione. Apertura al mondo invece che rifugio nella torre d’avorio.

Non mi considero una persona buona. Non in valore assoluto, e non più buona di altri. Sono egoista, ma non sempre. Rabbioso, di tanto in tanto. Aggressivo, sovente. Posso fare del male. Posso anche fare il bene di qualcuno.

Non sono una persona buona. Sono una persona.

Le scelte che ho fatto, o che ho subito, mi hanno portato dove sono. L’esame dello stato attuale mi permette di comprendere quali siano le nuove sfide. Riconquistare quanto ho perso è sicuramente la più importante tra esse, ma devo fare attenzione a non perdere quello che ho guadagnato, tornando al punto di inizio.

Credo che la parte più importante, il primo passo di questa nuova fase della mia vita, sia stata portata a termine: collocare me stesso, accettare lo stato attuale, e non soccombere a causa delle perdite subite.

So che posso fare male. So che gli altri possono farlo a me. La cosa più importante, a quanto ne so, è rendersi capaci di limitare gli effetti che questo ha su di me. In buona sostanza, il dolore che si prova è fortemente legato a come si reagisce all’altrui agire.

Questo vuoto che mi circonda si riempirà presto. E’ una cosa naturale. Quello che devo cercare di fare è riempirlo in maniera opportuna, per evitare di prendere una direzione troppo sbagliata.

Quello che penso, come affronto le situazioni, cosa decido, mi porta su una strada che si modifica ad ogni scelta, ad ogni azione. Quando si è immersi nel percorso, difficilmente si percepisce il prossimo punto di arrivo. Quello che devo affrontare adesso è il peso delle conseguenze delle mie azioni. Se l’altrui agire ha di sicuro impatti su di noi, che dobbiamo accettare e mitigare, le proprie scelte portano ad effetti estremamente amplificati, proprio in virtù del fatto che sono state nostre fatte da noi stessi.

Protezione e Spontaneità. Senza contrapposizione, senza più la torre d’avorio.

Il muro di contenimento non sarà smantellato, ma delle nuove finestre saranno aperte. Perché la luce filtri, l’animo si scaldi ed il mondo possa riprendere a regalarmi quelle emozioni di cui ho bisogno di nutrirmi. Questa la sfida per il mio futuro. Questo il cammino che non posso fare a meno di intraprendere.

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