L’ubiquità del bit

L’ubiquità del bit

Entrati nel tunnel della paranoia, risulta davvero difficile uscirne.

Da Wikipedia – definizione di Hard Disk:

“Il disco rigido è costituito fondamentalmente da uno o più piatti in rapida rotazione, realizzati in alluminio o vetro, rivestiti di materiale ferromagnetico e da due testine per ogni disco (una per lato), le quali, durante il funzionamento “volano” alla distanza di poche decine di nanometri dalla superficie del disco leggendo e scrivendo i dati”

Siamo abituati da sempre a vivere di informazioni. “Input”, li chiamava il robottino di Corto Circuito che valeva 11 milioni di dollari, e 17 centesimi. Tramite gli input, conduciamo le nostre vite, e produciamo input per altri, che le utilizzeranno a loro volta.

Il mondo è cambiato, e queste informazioni si sono sempre più spostate su un livello di intangibilità tale per cui, ormai, è molto difficile poterne entrare in possesso senza l’utilizzo di qualche strumento tecnologico.

L’epoca delle foto stampate su carta, o delle canzoni su nastro magnetico o CD, o ancora più di musica su dischi di vinile, volge al termine. Per ascoltare un brano, o vedere una foto, ormai è necessario passare per un microprocessore, che elaborerà il file relativo e lo presenterà all’utente.

Niente di nuovo, quindi… anche prima lo si faceva (anche le macchine fotografiche e i mangianastri avevano la loro componentistica elettronica.

Certo. Se non fosse che, ormai, per tutto questo si utilizza l’oggetto di cui sopra ho riportato una descrizione dall’enciclopedia ormai considerata il punto di riferimento globale. Anch’essa verifica in pieno quanto scritto sopra. Vorrei conoscere chi, ancora, prenderebbe un volume della treccani per cercare il significato di qualcosa che, generalmente, è distante solo pochi click se si ha un accesso a Internet (e ormai sono pochi quelli che non ne dispongono).

Chiaramente sto parlando della società a cui, bene o male, siamo tutti abituati. Esistono realtà diverse, ma sono così lontane da noi che, ormai, si presume chiunque in grado di accedere, in qualche modo, al “mondo virtuale”.

Su quanto sia virtuale questo mondo, credo che si siano spese parole a sufficienza. Non sarò io a scriverne ancora.

Solo, non so quanto invece sia diffusa (almeno tra le persone con cui sono in diretto contatto nella mia vita) la consapevolezza del fatto che, ormai, abbiamo affidato gran parte della nostra vita ad oggetti che, a prima vista, sono delle semplici scatolette dal contenuto misterioso.

Chi di noi, in effetti, pensa a quanto siano al sicuro le informazioni che noi produciamo, o che usiamo nella nostra vita?

Uno stimolo forte a riflettere su questa tematica è venuto, indovinate un po’, proprio da una persona che, con l’informatica, continua a litigare. Mia madre.

Una foto mostrata a video ha poco valore per lei. La vorrebbe toccare.

E non è la sola.

Effettivamente, l’effetto del tatto si sta un po’ perdendo, e tende ad essere ormai soppiantato attraverso l’uso di mouse, tastiera o display touchscreen.

Ma questa è solo una parte della problematica. In fondo, il mondo cambia e cambiano le modalità di utilizzo delle informazioni.

La parte più consistente della questione è, invece, che questo approccio nasconde un’insidia ben più grave.

La frase che più mi viene in mente, quando penso a ciò, è, sempre di mia madre, la sua affermazione che: “se mi si rompe il computer ho perso tutto”.

Non è completamente esatta, ed è evidentemente originata da qualcuno che non ha il concetto di cosa sia un computer. In fondo, i nostri dati non sono “nel computer”, ma sono memorizzati in un posto che può essere anche esterno al computer.

Un hard disk, per l’appunto.

Questa precisazione, però, non aggiunge né toglie nulla alla drammaticità dell’affermazione di cui sopra.

In effetti, perdendo l’uso di questa memoria (esterna, interna, a dischi, a stato solido o altro), si perde il suo contenuto. E, con esso, un pezzo della nostra vita, dei nostri ricordi.

Forse anche un pezzo di noi.

Penso che tutti, in qualche modo, abbiano sperimentato il dramma di aver perso qualcosa a causa della rottura di un hard disk.

Come scritto sopra, sono oggetti delicati, e dalla struttura assolutamente complessa. Malgrado siano ormai entrati a far parte della vita di noi tutti, continuano ad avere quel potere enorme che può determinare anche la nostra infelicità.

La loro caducità non è per nulla legata alla precarietà tipica di ciò che finora ha contenuto i nostri dati. La carta brucia, si bagna, si rompe… ma non esiste un foglio di carta che possa contenere migliaia di pagine di scrittura (magari prodotte dalla notra fantasia, creatività, poesia.

Distruggere una cassetta musicale o un CD può far perdere ore di tempo e di soldi: occorre ricomprarla, o rifarla se era stata prodotta da noi. Ma non esiste nessun CD in grado di contenere migliaia di canzoni, magari suonate da noi, o legate a qualche momento storico per noi importante.

Un libro si può acquistare, una foto stampata ha il suo negativo, e distruggere anch’esso può portare ad una perdita dolorosa ma limitata a quella foto, o a quel rullino.

Certo, se il tutto è in un album con centinaia di foto, il danno può essere grave.

Ma nessun album può contenere decine di migliaia di foto, appartenenti ad un periodo di vita lungo anni, o decine di anni.

Un hard disk, ormai, può contenere milioni di pagine stampate, decine di migliaia di canzoni, un numero imprecisato di fotografie, e molto, molto di più.

Il tutto è affidato a pochi centimetri di materiale ferromagnetico polarizzato, che viene letto utilizzando le peculiarità di questo stato polarizzato, attraverso quelli che chiamiamo bit. Uità di informazione non facilmente misurabile e praticamente invisibile ad occhio nudo. L’informazione di base.

Qualcosa che non è carta, né plastica, né pellicola.

Qualcosa che, di fatto, non esiste.

Perdere questa mole di dati è, di fatto, sempre più raro man mano che la tecnologia evolve. Ma è di una semplicità che ha del paradossale.

Una calamita ben piazzata farebbe sparire all’istante la nostra vita.

Una gomitata maldestra distruggerebbe quella scatoletta di pochi centimetri cubici, e manderebbe in frantumi tutto quello che vi è contenuto.

Sono troppo drammatico? Di fatto, però, abbiamo accettato di affidare ad entità non tangibili qualcoasa che, invece, vorremmo utilizzare, tenere, toccare.

Lo spazio occupato nelle case ne beneficia. La disponibilità dei dati, così memorizzati, non ha virtualmente limiti. Non serve inviare una foto in una busta affidata alle poste. Basta un secondo, e possiamo guardarla da qualsiasi parte nel mondo. Condividerla. Crearne delle copie. Modificarla a piacimento e mantenere comunque la sua versione originale.

Insomma, abbiamo guadagnato in disponibilità dell’informazione, ma abbiamo perso di vista la messa in sicurezza dalla fonte dell’informazione stessa.

Per questo proliferano le soluzioni che permettono copie di tutto quel che abbiamo.

Per questo le persone iniziano ad investire in questa direzione.

Attualmente possiedo qualcosa come 6 hard disk esterni, messi al sicuro su una mensola di casa mia a Roma, con copie multiple di tutto quello che ritengo per me vitale.

Sarà abbastanza?

No, non lo è. La rottura di un singolo hard disk potrebbe ormai essere sopportata da me con una semplice smorfia, dovuta alla fatica che mi costerebbe ripristinare lo status quo, acquistandone un altro, installandolo dove ritengo giusto, e popolandolo con quello che prima conteneva. Ho copie di tutto quel che è importante.

Se, però, qualcuno dovesse introdursi in casa mia, e trafugare la simpatica pila di hard disk che ho su quella mensola, magari per venderli sul mercato nero, o per semplice dispetto, o se, nel tentativo di cercare qualcosa di prezioso o(che non troverebbe), facesse cadere il tutto a terra, mandando in frantumi originali e copie, cosa potrei fare per recuperare quei dati preziosi, che non hanno valore economico ma un importantissimo valore sentimentale?

Da qui l’esigenza di affidare il tutto ad uno storage esterno.

Potrebbe essere un hard disk posizionato all’esterno di casa mia. Un terremoto, un furto, un’incendio o un’alluvione localizzata non mi creerebbero troppi problemi (almeno per quanto concerne il recupero dati… tutto il resto chiaramente sarebbe un disastro…).

Una soluzione di questo tipo sarebbe utile ed economica, ma poco manutenibile. Ogni nuova info non sarebbe facilmente memorizzabile su questo storage.

L’accessibilità potrebbe essere risolta usando un computer, collegato in rete.

Allora potrei aggiornare costantemente il backup, e star tranquillo. Ma serve una connessione stabile, efficiente e disponibile da remoto. E le soluzioni casalinghe (le ADSL nostrane) non permettono facilmente l’accesso da una rete che non sia locale.

Chiaramente esiste Google, e la mia conoscenza di ciò che il panorama informatico offre è sufficientemente aggiornata da sapere che esistono società che si sono poste questo problema ben prima di me, e che hanno cercato di rendere disponibili al pubblico soluzioni efficienti.

Di fatto si tratta di avere un doppio livello di messa in sicurezza: il backup locale, che garantisce contro le rotture più “frequenti”, ovvero quelle che impediscono l’accesso al dato originale. Una pila di hard disk è sufficiente a coprire questa esigenza, ed è più o meno economica… con un centinaio d’euro la maggior parte delle persone è in grado di copiare tutto su un secondo hard disk, che ormai hanno capienza sufficiente per non doversi domandare quando saranno esauriti.

Chiaramente io non sono tra questa “maggior parte”… e quando mai…

Così ho messo in piedi una struttura composta da ben 4 hard disk esterni, collegati tramite USB, ed un NAS con doppio hard disk, collegato alla rete casalinga. Questa soluzione mi indirizza anche il problema dell’accessibilità dei dati, sempre all’interno della mia rete casalinga.

Ora posso vedere films dalla TV senza accendere il PC, spostare foto e documenti tra le varie postazioni ed utilizzarli da vari computer e terminali mobili.

Per indirizzare la tematica del “disaster recovery”, invece, dopo lunga ricerca ho deciso di affidarmi alla soluzione proposta da Livedrive.

Di essa parlerò nel prossimo post, per evitare che questo diventi eccessivamente noioso e lungo.

Ciò che sono finalmente riuscito ad ottenere, malgrado ci siano ancora alcuni vincoli che evidenzierò nel topic relativo, è una presenza costante delle informazioni a me care nella mia vita. Un po’ come portarsi appresso sempre tutte le proprie foto, la musica, i films e i documenti a cui si tiene. La differenza è che non dovrò utilizzare una valigia apposita, e che non rischierò di smarrire il tutto, o di danneggiare qualcosa.

Quel piccolo bit, che era prima confinato in un hard disk nella mia casa, ora vive il suo momento di gloria, volando nell’etere e visitando tutti i posti che io visito. La sua presenza è costante, sicura, duplicata in maniera attenta.

Un bit ubiquo… miliardi di bit ubiqui, che mi seguono e che non sono più così eterei come prima.

Al prossimo post, in cui farò un po’ di pubblicità (buona, per gran parte, ma non solo) al servizio Livedrive.

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