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Pensiero

PENSIERO – Marzo 1998

Sapeva che era giusto.
Era lì che guardava il cielo, e la sua testa era come svuotata di tutto quello che, fino a qualche istante prima, l’aveva riempita, colmata, fatta sentire viva.
Lo sapeva, ma non riusciva a capacitarsene.
Era giusto, in una maniera che non riusciva a comprendere, ma che doveva accettare.
La sua vita era stata una continua sofferenza, una continua tortura, e la causa di tutto era la sua mente. Pensava, ecco tutto. E questo era il suo peggiore difetto.
Lo era sempre stato, e sempre aveva dovuto accettare i compromessi che gli si presentavano quando la realtà si allontanava da ciò che lui credeva, voleva, pensava.
E nel suo mondo, in questa strana vita, accadeva sempre più spesso.
Quelle usanze non le poteva di certo condividere, ma purtroppo erano parte integrante della società in cui era nato e nella quale cresceva e nella quale, ormai era certo, sarebbe morto.
Si era rassegnato.
**********
Seppe che qualcuno arrivava alla sua tenda. Lo sentì come tante altre cose sentiva, come la sua tribù era solita percepire le cose, attraverso quella sensazione di certezza, di pienezza, di comprensione che lo invadeva in quei momenti.
Uscì, e si parò innanzi alla tenda, in attesa.
Gli ospiti non tardarono, e lui non aspettava altri che loro.
Si prostrò ai piedi del Capo, pronunziando le solite formule cerimoniali di benvenuto, poi salutò come si doveva i suoi due accompagnatori, due Saggi del sesto livello.
Sembrava che l’intero Consiglio fosse venuto presso di lui.
Ed era giusto così. Venivano a salutarlo, ed a congratularsi con lui.
L’impassibilità delle loro voci e dei loro sguardi invadeva il suo cuore, mostrando la sacralità della cerimonia, solenne più di qualsiasi umana sensazione. Così era stato fin da sempre, e così sarebbe stato.
Parlavano, ma non li sentiva. Pensava.
Non avrebbe dovuto, non era giusto, perché sapeva che per tutta la tribù quello era un momento di esaltazione e terrore, un momento sacro, e sapeva che i suoi pensieri aborrivano tutto ciò.
Ma non poteva far altro che pensare. Questo gli restava, di tutta la sua esistenza, ormai proprietà del Consiglio.
Questo gli restava, e questo non poteva fare altro che utilizzare.
Lo stavano toccando, lo cospargevano di sostanze sacre, lo benedicevano con riti propiziatori, e tutto questo doveva essere giusto.
Non era possibile che la società commettesse un’ingiustizia, non potevano aver sbagliato per millenni, e non era possibile che solo lui la pensasse in maniera diversa.
Doveva essere giusto.
Ma come fare per accettarlo?
Come poter accettare che il proprio destino sia nelle mani di altri?
Come convivere con la propria morte?
**********
Quella notte dormì poco e male, ossessionato da immagini di demoni e fiamme.
Il dio del Ras non poteva commettere un’ingiustizia, così come i suoi inviati non potevano sbagliare.
Ma, ultimamente, aveva iniziato a credere sempre meno negli altri, specie in chi si faceva portavoce del bene comune.
Eppure sbagliava. Lo sentiva, lo sapeva, e sapeva che doveva essere così. Ma non riusciva a pensare ad altro che alla sua vita, alle sue idee, alle sue aspirazioni, e non poteva credere, non ci riusciva, che tutto ciò fosse nulla, fosse un vizio, un peccato.
Sarebbe morto, e questo era giusto.
Ma era giusto anche il non voler morire?
Non sapeva, e non avrebbe mai risolto tale dilemma.
Il Capo aveva terminato la sua benedizione la sera prima, e l’indomani il dio avrebbe avuto il suo pasto.
Questo avrebbe dovuto eccitarlo, renderlo felice.
Vedeva gli occhi dei suoi amici raggianti, vedeva in loro l’invidia, il desiderio di poter essere al suo posto.
La sua donna aveva urlato, felice di poter essere l’amante del personaggio che, l’indomani, sarebbe stato offerto .
Prima l’aveva vista, anche se le leggi della tribù lo vietavano.
Era venuta in segreto, e si erano uniti. Continuava a baciarlo, a toccarlo, a carezzarlo… sembrava non dovesse smettere mai.
Invece se ne era andata, e sapeva non l’avrebbe più rivista.
Doveva dormire, per essere riposato l’indomani.
Ma a cosa serviva dormire, se poi non avrebbe più potuto vivere?
Voleva le ultime ore per sé, per iniziare a disfare la propria vita, i propri ricordi, così da soffrire meno per la dipartita.
Non credeva che tutto potesse capitare così, all’improvviso.
E non era pronto.
Finora ogni cosa che aveva fatto aveva presupposto un oggi, uno ieri ed un domani.
Sapere che quel domani non ne avrebbe avuto un altro lo struggeva, lo faceva sentire fragile, inutile, senza scopo.
Tutti i suoi progetti svanivano in un soffio: da quel momento non sarebbe più esistito. Come era possibile tutto ciò?
Perché?
Era sbagliato pensarlo, lo sapeva, ma… non credevano anche loro che tutto ciò, in fondo, potesse non essere giusto? Che lui fosse un essere, con un passato, un futuro, con dei pensieri, con una propria vita?
Tutto ciò lo angosciava.
Sacrificio.
Quella parola risuonava nella sua mente.
Era sulla soglia dell’età adulta, e di questi riti ne aveva visti a decine.
Ogni, volta, però, ad essere sacrificato era un altro.
Non aveva mai posto pensiero a cosa potesse provare un uomo in quella situazione.
Sempre, tutti avevano mostrato un incredibile freddezza nell’accogliere la notizia, e per giorni avevano girato per la tribù fieri del loro breve ma intenso futuro.
Ad essi erano tributati onori e gloria, ed ogni loro desiderio, per tutto il corso della luna, era e doveva essere, per gli altri, un ordine cui obbedire senza discussioni.
Ma aveva sempre visto nei loro occhi, nel momento del sacrificio, un’espressione strana, allucinata.
Ora capiva: tutto l’orrore del momento, l’intera consapevolezza del destino verso cui stavano volando, piombava improvvisa nei loro cuori, sconvolgendo e distruggendo ogni cosa, senza pietà.
Ora sapeva cosa prova un uomo che precipita verso la morte, mentre centinaia di suoi amici applaudono ed urlano di gioia, ballando e cantando inni sacri, amici che lo hanno prescelto per quella orribile fine.
L’unica differenza tra lui e tutti gli altri era, ed ora se ne rendeva conto, proprio nel suo pensare, nel suo non voler morire.
I suoi predecessori lo desideravano, per loro non era che un momento di gloria estrema.
Per lui era la fine. La fine della sua vita, del suo esistere, del suo sperare, gioire, amare, la fine dei suoi sogni, la fine di una persona, di un uomo, di una mente.
Una fine, peraltro, consapevole, programmata, attesa e vissuta fino all’ultimo istante.
La sua ragazza lo aveva salutato. Lei era sempre stata fedele ad ogni tradizione.
Lo stava ad ascoltare, lo sentiva, condivideva anche i suoi pensieri, comprendendoli seppure non accettandoli fino in fondo.
“Purtroppo è la tradizione”, diceva ogni volta, e poi sorrideva e lo trascinava via, gettandosi a capofitto in balli e canti, nella vita della tribù.
Gli lasciava sempre una sensazione amara, di sconfitta, di dolore, di incomprensione.
Gli lasciava la convinzione di sbagliare tutto, di sfidare troppo l’ira degli dei.
Ma non poteva far altro che pensare, e nel suo pensiero concludere la vita.
**********
Lo svegliarono le urla e le danze.
Giorno di festa.
Festa grande.
Dopotutto aveva dormito. Poco, ma pesantemente. Il pensare stanca.
Si alzò, la testa dolente. Chissà se lo sciamano avrebbe potuto curarlo, quella volta.
Aveva come l’impressione che la sua testa avrebbe continuato a dolergli… per sempre.
Sorrise.
Indossava solo il perizoma, ma uscì ugualmente fuori dalla tenda.
Il campo centrale era affollato, ed in subbuglio.
Il sole era lontano dall’iniziare il suo cammino, ed a quell’ora, di solito, l’intera tribù era solita dormire.
Oggi era tutto diverso.
Osservò i preparativi, con attenzione.
Non gli erano nuovi: gli anni precedenti lo avevano visto spesso impegnato in tali faccende. Lo spettacolo, però, stavolta gli dava meno sensazioni: era come se fosse un estraneo. Non doveva fare nulla, e questo, per lui era un fatto nuovo, per lui che era sempre stato impegnato in qualcosa.
Stavolta era il festeggiato, e non doveva muovere un dito.
Avrebbero pensato a tutto i suoi amici, i suoi parenti, le donne che aveva amato.
Doveva solo attendere.
Una smorfia di orrore gli contrasse il volto quando vide la gabbia.
La portava su per la montagna del Ras un drappello di una decina di uomini.
Sapeva cosa sarebbe successo poi: sapeva che l’avrebbero montata sui due pali di sostegno, e che, durante la mattinata, avrebbero montato l’intero sistema di carrucole che avrebbero permesso alla gabbia di essere sollevata per poi precipitare fino all’interno del vulcano.
La gabbia al cui interno lui sarebbe stato sdraiato sul ventre.
Avrebbe visto le fiamme allungarsi, avrebbe avvertito il calore aumentare, e poi più nulla.
Poi, probabilmente senza smettere di cantare e ballare, le carrucole sarebbero state smontate, e tutti sarebbero tornati al villaggio, dove avrebbero festeggiato il sacrificio con un lauto e festoso pranzo.
Mentre uno di loro non esisteva più.
Rientrò nella tenda, e si mise qualcosa addosso.
Poi vennero a prenderlo le nutrici, per portarlo al cospetto del Capo, ove avrebbe assistito alla Cerimonia ed al Gran Discorso.
Poco tempo ancora, ed il dio avrebbe avuto il suo pranzo, grazie al quale il villaggio sarebbe sopravvissuto un altro anno.
**********
Risalivano tutti insieme la montagna del Ras. Lui, ovviamente, era davanti agli altri, e guidava la spedizione.
Il cammino della purificazione: il sentiero attraverso il quale la sua anima doveva prepararsi al distacco dal corpo. Prepararsi ad essere offerta in sacrificio.
Molte volte aveva fatto parte del seguito. Questa volta era lì, davanti a tutti, ed ogni sua mossa veniva osservata, decantata, inserita nel mito di quell’anno.
Molti altri iniziavano ad urlare, oppure si gettavano in terra in adorazione, molti ballavano, altri saltavano. Lui non avrebbe fatto nulla.
Tutti lo facevano solo per far parlare, per creare leggende, e tutti, come lui, durante quel cammino di certo non purificavano nulla, così come non provavano nulla.
Solo tanto stupore e tanta paura.
Si iniziava a scorgere la cima.
La gabbia era già in posizione, pronta ad ospitarlo.
Era bassa, stretta e lunga, giusta per contenere un uomo sdraiato sul ventre, legato a guardare la sua fine attraverso gli spazi tra i rami che formavano il pavimento della gabbia.
Si fece prendere dal panico, ma cercò di calmarsi il prima possibile. Doveva affrontare tutto come gli avevano insegnato.
Era giusto, su questo non c’era dubbio, anche se lui era portato a pensarla in maniera diversa. Era e doveva essere giusto.
E lui doveva esserne degno, meritare tale immenso onore.
Le nutrici lo seguivano a ruota, da vicino.
Gli gridavano parole che sul momento non capiva.
Poi ricordò. Non stavano parlano con lui, ma con il dio, pregandolo di accettare questo misero tributo.
Pronunziavano le loro invocazioni nell’antica lingua, quella dei loro antenati.
La conoscevano in pochi e, di solito, chi veniva sacrificato era scelto tra i più giovani, tra quelli che non erano ancora entrati nel mondo adulto.
La vita di un bambino e di un fanciullo, infatti, era proprietà della tribù, mentre quella di un adulto era solo una cosa privata.
Lui stava per entrare nel mondo adulto, e qualche insegnamento sull’antica lingua lo aveva già avuto.
Seguiva, inoltre, le prove del fratello maggiore, che aveva imparato quella lingua.
Così capiva, più o meno, quello che le nutrici stavano dicendo.
Una di loro lo aveva allattato, e lui l’aveva sempre chiamata mamma, sebbene una madre già l’avesse.
Nessuno, infatti, poteva mantenere in privato un bambino, ed ogni nuovo nato veniva ceduto alla tribù fin da piccolo, affinché si decidesse sulla sua sorte.
Era successo a volte che il Consiglio decidesse di offrire al dio del Ras un bimbo che non era ancora nato.
Quando questi veniva alla luce, lo si cresceva in previsione del suo sacrificio, e gli veniva spiegato esattamente cosa avrebbe subito.
Occorreva, allora, solo aspettare, mentre altri venivano offerti durante gli anni in sua vece, in attesa che egli crescesse.
Raggiunta l’età, il sacrificio, in quel caso, era ritenuto ancora più sacro, tanto che si riteneva soddisfatto il dio per almeno due anni.
A lui era toccato di essere scelto, e questo onore avrebbe dovuto riempirlo di gioia. Aveva visto bimbi che raccontavano agli amici il loro destino, e vedeva i loro occhi, mentre narravano di come erano i prescelti per il grande sacrificio, vedeva i loro sguardi illuminarsi, accendersi di passione e di orgoglio.
Perché riusciva solo a provare una grande tristezza, un incredibile vuoto?
**********
Si lasciò sollevare, abbandonato ai suoi pensieri, mentre il Consiglio al gran completo invocava con preghiere e benedizioni la clemenza del dio verso il villaggio.
La tribù ballava, e lui moriva.
Venne sollevata la gabbia, e le funi ancorate.
Era sospeso ad una decina di metri da terra, sostenuto solo da due grossi pali.
Questi sarebbero stati allungati verso l’imboccatura del vulcano, così da posizionare la gabbia proprio al centro del camino.
Il Consiglio avrebbe ancora una volta benedetto il sacrificio, poi le funi sarebbero state tranciate, nel silenzio più totale.
Così lui sarebbe morto, così il villaggio sarebbe sopravvissuto.
Iniziò l’operazione di spostamento, che durò qualche minuto.
Si trovò a guardare diritto nel camino, a fronteggiare la sua tomba.
Attese.
Iniziò il rito propiziatorio, e le sue orecchie iniziarono a confondere le frasi del Capo. Pensava, ed i pensieri si accavallavano, distruggendosi e distorcendosi, confondendosi con immagini e momenti, e scorrendo ogni istante della sua esistenza, che stava per terminare.
Ognuno è distratto, troppo, per poter assaporare ogni momento, per potersi godere quelli più belli, e tende spesso a dimenticare con facilità, a fare progetti per il futuro senza considerare il passato.
Lui stava vivendo i suoi ultimi istanti, ed in quei momenti poteva solo vivere nel passato, e ricordare, e riportare tutto al presente.
E lo faceva, la mente obnubilata da tante immagini.
Poteva solo guardarsi attorno, e vedeva distintamente gli altri ballare, saltare, additarlo e sorridere, ognuno rapito in quel genere di estasi propria dei riti, rapiti e trasportati altrove.
Era tutto giusto, era solo questo che era giusto, mentre i suoi pensieri non lo erano, i suoi ricordi erano solo tali, la sua vita una inutile sequela di scorrettezze, di bestemmie.
Doveva essere giusto.
Doveva.
Altrimenti… altrimenti perché… perché lui stava morendo?
Sapeva che tra qualche istante tutto sarebbe finito, e che, una volta tagliate le funi, la sua fine sarebbe stata inevitabile. Non si poteva tornare indietro. Sarebbe terminato, sarebbe stato un niente, non avrebbe più potuto vedere i suoi amici, non avrebbe più potuto fare progetti, sperare, vivere. Vide le lame avvicinarsi alle corde che lo tenevano vivo, ed i suoi occhi si spalancarono, il viso si contrasse in una smorfia di terrore, di orrore, la smorfia che tante volte aveva letto nei visi degli altri.
Solo che ora lui era lì, e lo viveva in prima persona.
Le funi vennero tagliate. Discese a velocità folle verso quel punto rosso in lontananza.
Le fiamme erano sempre più vicine. Nulla più si poteva fare. La sua morte era una certezza.
Smise di pensare, e si congedò dalla vita.
Doveva essere giusto.
Poi l’inferno lo avvolse.

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